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Sotto i riflettori, sopra un palco nudo, quasi squallido, gesticola, con moti nervosi e disarticolati, una figura esile e scomposta. Lo zoom si avvicina e appare un viso scarno, sovrastato da un naso adunco e prominente, una maschera in grado di somatizzare il dolore, la rabbia, la gioia, una miriade di sentimenti e di situazioni, in una teoria di immagini reali e convincenti. Questa silouhette tra le luci è Giorgio Gaber, per l'anagrafe Gaberscik nato a Milano il 25 gennaio 1939.
La famiglia, di origini venete, è una tranquilla famiglia della piccola borghesia, che, subito dopo la guerra, manda il figlio a scuola sino a diplomarsi ragioniere. A seguito di una paralisi ad un braccio che lo colpisci a quindici anni, i medici gli consigliano lo studio della chitarra, per curare l'esercizio dell'arto. Superata la maturità arriva subito l'iscrizione alla Bocconi. Ma i Rocky Mountain, un complessino Jazz interromperà la sua carriera universitaria. Inizia
l'avventura discografica, opportunità che Ricordi gli offre con un
contratto.
Nel
corso degli anni è stato definito "anarchico", oppure "filosofo ignorante"
e ancora "vate dei cani sciolti", ma qualsiasi etichetta risulta assai
stretta e mai sufficiente a riassumere la complessa personalità soggettiva
e politica dell'artista.
...e così, a un certo punto, abbiamo liberato anche l'amore: finalmente più nessuna repressione, anzi, per alcune coppie l'infedeltà è una specie di garanzia di modernità. E con questa smania di dare ascolto ai brividini del cuore si disfano allegramente le coppie e gli amori nascono come funghi in una strana euforia di cui il fallimento sembra la normale conclusione. Ma non c'è mai venuto in mente che proprio nella fedeltà si potrebbe trovare una risposta… diversa; no, non la fedeltà alle istituzioni e neanche alle regole del buon senso antico ma… la fedeltà a noi stessi…. Giorgio Gaber
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